Quel che resta dell’infanzia. A proposito della giornata mondiale dei diritti dell’infanzia.
- Posted by Eva Orlando
- On 22 novembre 2016
- Abuso, Bambino, Diritti, Infanzia, Psicologia dell'età evolutiva, Psicoterapia
Abusata, violata, dimenticata è l’infanzia dei nostri tempi. Non mi riferisco solo agli abusi fisici, che balzano agli onori della cronaca con numeri sconcertanti fino agli ultimi dati che riportano il numero di quattro abusi al giorno per lo più non denunciati. Ma parlo di un tempo che ha smesso di ascoltare l’infanzia. Un tempo che dimentica i bambini è un tempo che devasta.
La carta dei diritti universali proclama che: “L’unica cosa che tutti i bambini hanno in comune sono i loro diritti”. Ogni bambino ha il diritto di sopravvivere e prosperare, di essere educato, di essere libero da violenze e abusi, di partecipare e di essere ascoltato.
Se voltiamo le spalle ai diritti dei bambini, allo sguardo dei bambini, perdiamo qualcosa di noi stessi, qualcosa del nostro stesso desiderio di essere riconosciuti. I nostri bambini, i nostri figli non chiedono di essere amati, ma di essere riconosciuti. E allora – prendendo spunto dal titolo che dà Colette Soler al Corso del 2012-2013 presso il Collège Clinique de Paris – mi domando: “Cosa resta dell’infanzia? Cosa resta nell’adulto del bambino che si è stati? Qual è la traccia dell’infanzia nella propria identità?”.
Non c’è bisogno che ci sia stato un trauma per ripensare, o non voler pensare affatto, alla propria infanzia. Perché la nostra infanzia è qualcosa che ritorna nel rapporto con l’Altro. Qualcosa resta del bambino nel cosiddetto adulto, nei suoi sintomi e nelle sue pulsioni, negli incontri della sua storia e nelle sue scelte. L’infanzia determina non solamente la sessualità a venire ma il destino del soggetto. Il tema dell’infanzia come destino è molto presente nella nostra epoca. Il bambino resta presente seppur camuffato nell’adulto. Qualcosa ritorna nella singolare modalità di ciascuno di stare nel mondo. Un bambino non visto sarà un adulto non riconosciuto. “L’eterno bambino”o l’“avere l’età della ragione” sono modi della nostra lingua che usiamo per esprimere un modo d’essere adulto. La relazione adulto/bambino è qualcosa che interessa molto non solo la psicologia e la psicoterapia, ma anche il mondo della scuola e le famiglie. Penso che assistiamo ad una accelerazione sui tempi dell’infanzia, quando l’educazione si spinge fino a normatività, o quando l’acquisizione ad esempio dell’ autonomia personale diventa il principale parametro di equilibrio psicologico. C’è un’affannosa corsa a diventare adulti. A cancellare il tempo dell’innocenza. A superare la soglia del mondo adulto. E tutto questo ha le sue inesorabili ripercussioni nell’ambito delle pratiche di cure. Spesso non interessa la soggettività, ma la pratica di normativizzare il bambino. Pratica secondo me molto pericolosa. È in questo senso, che trovo molto precise ed utili le parole di Colette Soler quando dice: “Che il bambino è alla mercè dell’Altro, degli altri che lo ricevono nella vita. Lo è realmente, lo è simbolicamente. Di conseguenza per situare l’essere del bambino ci si domanda cos’è per l’Altro, per questi altri, che parlano ognuno un dialetto del discorso del loro tempo, della loro società”.
I bambini ci guardano attoniti, ogni volta che falliamo nell’integrazione, nei legami sociali e nell’accoglienza. Un tempo che non guarda al bambino è un adulto che non vede il bambino che è stato.
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