Autismo. La babele delle diagnosi
- Posted by Eva Orlando
- On 7 febbraio 2017
- AUTISMO, CLINICA, CLINICA ETA' EVOLUTIVA, Infanzia, Psicologia dell'età evolutiva, Psicoterapia
Nell’autismo c’è un’umanità che resta nascosta dietro la babele delle nosografie che si rincorrono e si rimescolano per catturare qualcosa che per la sua stessa natura è incatturabile.
Oggi l’autismo occupa nel dibattito scientifico-psichiatrico il posto, scomodo e complicato, che in passato è stato riservato ad altre condizioni della sofferenza umana.
Eppure, proprio per l’autismo di cui è risaputo che il dibattito sull’eziologia è ancora aperto e che si è spinto fino ad evocare cause: genetiche, metaboliche, neurobiologiche, tossiche o da vaccino (tutte ritenute insufficienti dal discorso della scienza per la patogenesi), c’è una precisa direzione sanitaria sulle linee guida per il trattamento e la terapia dell’autismo. É una cosa molto particolare. Non trovate? Non si conoscono le cause, ma il sistema sanitario scende in campo per definire la migliore terapia a riguardo. Si aggira attorno all’autismo una nuvola di mercato – dettato dal discorso del capitalista – che esclude, o almeno prova ad isolare quella quota di soggettività che spetta allo psicoanalista di sollevare.
Fin da quando Eugen Bleuler (1911) ha introdotto il concetto di autismo nella psicopatologia della schizofrenia, si è voluto interpretare la sua manifestazione più specifica e cioè la grave incapacità a stabilire relazioni intersoggettive come l’unica possibilità per l’autistico di ritirarsi dalla realtà del mondo esterno e dagli altri. È noto che Bleuler ha proposto il termine «autismo» sottraendo alla parola «autoerotismo» la sua parte di «eros». La formula bleuleriana secondo la quale l’autismo sarebbe l’autoerotismo senza l’eros è adatta a definire uno stato psicopatologico di ritiro, di perdita e di privazione.
C’è in questa storia della definizione dell’autismo qualcosa che rievoca una perdita, una perdita di eros che forse possiamo tradurre come una perdita di pulsione. Spetta a Leo Kenner (1943) la descrizione e definizione dell’ “autismo infantile”. La descrizione originaria di Kanner riguardava undici bambini, che egli definì affetti da “disturbo autistico del contatto affettivo”. “I can’t reach my baby”, raccontava sgomenta la madre di Charles, il caso 8°. “La cosa che impressiona di più – commentava Kanner – è l’inaccessibilità di Charles, il suo distacco. Cammina come se stesse nella sua ombra, vive in un mondo tutto suo, dove non può essere raggiunto”. Tutti gli undici bambini sembravano a Kanner mostrare questa enigmatica assenza relazionale, questa sorta di evanescenza del normale sentimento di essere in collegamento con gli altri esseri umani e di condividerne l’esperienza, alla quale, anzi, parevano non essere interessati. Tutti i bambini avevano importanti deficit nella comunicazione e nel linguaggio.
Nell’attuale panorama diagnostico e cioè nel DSM arrivato alla sua V° edizione c’è un’importante novità a riguardo dell’autismo. Nella sua ultima edizione sono diminuiti i criteri per la diagnosi di autismo, ridotti da tre (alterazioni qualitative dell’interazione sociale, alterazioni qualitative nella comunicazione, comportamenti ripetitivi e stereotipati) a due (disfunzioni nella comunicazione sociale e comportamenti ripetitivi). Si tratta di un dato molto importante che ci deve far riflettere: se cadono i criteri di esclusione aumenta il numero di inclusione. Cioè se i criteri di esclusione si escludono si può più facilmente generalizzare la diagnosi aumentando il numero di casi di questa o quella patologica.
Con il DSM V, infatti, siamo arrivati a più di 160 possibili diagnosi riguardanti l’intera sofferenza umana.
La domanda da porci è come dobbiamo intendere le sindromi autistiche al di là di una sterile opposizione tra organogenesi e psicogenesi? Qual è il contributo che lo psicoanalista può dare al dibattito attuale, appunto a quella babele – di cui parlavo all’inizio – nella quale il bambino autistico appartiene alla categoria: di disturbo pervasivo dello sviluppo, sindrome dello spettro autistico, disturbo disintegrativo dell’infanzia? Cosa ha da dire la psicoanalisi al bambino autistico e ancora come si inserisce nell’attuale dibattito ad es. delle linee guida dell’Istituto Superiore di Sanità?
Conoscerete la recente polemica scoppiata intorno al caso dell’autismo. La questione riguarda l’intera Europa, dove i nostri colleghi in Spagna, in Francia come qui in Italia, si sono trovati ad affrontare proposte di legge o linee guida degli istituti sanitari nazionali miranti ad escludere la psicoanalisi dal trattamento dell’autismo. Le linee guida dell’ISS stabiliscono come unico metodo valido per il trattamento dell’autismo l’ABA (Applied Behaviour Intervention) che è una terapia cognitivo-comportamentale che richiede programmi comportamentali intensivi da 20 a 40 ore settimanali e che “punta a migliorare le abilità intellettive, il linguaggio ed i comportamenti adattivi”.
Per la psicoanalisi la sfida è tutt’altro. Si tratta di affrontare l’autismo a partire da quello che terapie di altro genere non possono proprio fare, cioè, per la psicoanalisi la sfida è quella di affrontare l’autismo a partire dal suo fondamento etico. E con ciò intendo dire che solo la psicoanalisi può affrontare l’autismo a partire proprio da quel cortocircuito tra lalangue, parola e linguaggio, entro cui si eclissa il soggetto. Solo così, a parer mio, è possibile arginare la proliferazione delle tecniche del comportamentismo e del cognitivismo. Infatti, se dal punto di vista dell’orizzonte terapeutico delle TCC (ma sarebbe più corretto definirlo intervento e non orizzonte terapeutico), il linguaggio che si sviluppa nei bambini autistici è meccanico, protocollare e automatico, dal punto di vista della psicoanalisi, invece, il linguaggio nell’autismo rinvia ad un soggetto particolarmente introvabile.
Le TCC, in quanto oggettive, fanno fuori il soggetto; sono degli interventi educativi e comportamentali. Dunque non trattano i sintomi. I bambini autistici non sono degli handicappati, come induce a pensare il discorso delle TCC. Questa clinica senza soggetto “utilizza le capacità dell’autistico al servizio dei suoi bisogni”, così come annuncia il programma TEACCH. In tal senso, gli interventi cognitivo-comportamentali non sono una terapia, ma una pedagogia e rischiano di indurre una confusione tra terapia e pedagogia, e cioè sono esposte al rischio di confondere il prendersi cura di con l’ istruzione del. Ciò è dovuto al fatto che le TCC sembrano trascurare un dato di per sé incontrovertibile: che l’uomo – a differenza dell’animale – parla e che, parlando, snatura profondamente il proprio funzionamento biologico, istintituale, comportamentale e cognitivo.
Proprio perché parla, l’uomo è infatti soggetto di desiderio e soggetto al desiderio.
Nell’ambito delle indagini neurofisiologiche si può cogliere una continuità tra la scoperta dei neuroni specchio e lo stadio dello specchio di Lacan. Sono certa che questa scoperta avrebbe fatto sobbalzare Lacan. Le parole come sappiamo producono degli effetti ed il fatto stesso che questi neuroni motori siano stati definiti specchio ha la sua rilevanza, almeno per noi che possiamo darvi anche una lettura psicoanalitica.
Come saprete, è una tipologia di neuroni la cui esistenza è stata rilevata per la prima volta verso la metà degli anni ’90 da Giacomo Rizzolatti e colleghi presso il dipartimento di neuroscienze dell’Università di Parma. Utilizzando come soggetti sperimentali dei macachi, questi ricercatori osservarono che alcuni gruppi di neuroni si attivavano non solo quando gli animali erano intenti a determinate azioni, ma anche quando guardavano qualcun altro compiere le stesse azioni.
Studi successivi, effettuati con tecniche non invasive, hanno dimostrato l’esistenza di sistemi simili anche negli uomini. Sembrerebbe che essi interessino diverse aree cerebrali, comprese quelle del linguaggio. I neuroni specchio permettono di spiegare fisiologicamente la nostra capacità di porci in relazione con gli altri. Quando osserviamo un nostro simile compiere una certa azione si attivano, nel nostro cervello, gli stessi neuroni che entrano in gioco quando siamo noi a compiere quella stessa azione. Per questo possiamo comprendere con facilità le azioni degli altri: nel nostro cervello si accendono circuiti nervosi che richiamano analoghe azioni compiute da noi in passato.
Quest’ultima precisazione è molto importante. Infatti sembrerebbe che il “sistema specchio” entri in azione soltanto quando il soggetto osserva un comportamento che egli stesso ha posto in atto in precedenza. Ad esempio, si è visto che in un danzatore classico i neuroni specchio si attivano esclusivamente di fronte a un’esibizione di danza classica, e non di fronte al ballo moderno, e viceversa.
Anche il riconoscimento delle emozioni sembra poggiare su un insieme di circuiti neurali che, per quanto differenti, condividono quella proprietà “specchio” già rilevata nel caso della comprensione delle azioni.
Vi sono infine alcune evidenze sperimentali che sembrano indicare che anche la comprensione del linguaggio faccia riferimento, almeno per certi aspetti, a meccanismi di “risonanza” che coinvolgono il sistema motorio.
La scoperta dei neuroni specchio potrebbe offrire una spiegazione biologica per almeno alcune forme di autismo, come, ad esempio, la sindrome di Asperger: in effetti, gli esperimenti in tal senso finora condotti sembrerebbero indicare un ridotto funzionamento di questo tipo di neuroni nei bambini autistici. Benché per ora si tratti soltanto di un’ipotesi, essa potrebbe aiutare a comprendere perché le persone autistiche non partecipano alla vita degli altri, non riescono ad entrare in sintonia con il mondo che li circonda, non capiscono il significato dei gesti e delle azioni altrui. Probabilmente non comprendono neppure le più comuni emozioni espresse dal volto e dagli atteggiamenti di coloro che li circondano: quello che per tutti è un sorriso, per loro potrebbe essere una semplice smorfia.
È molto interessante come i neuroni specchio colleghino autismo, linguaggio e stadio dello specchio come formatore della funzione dell’Io.
I segni tipici dell’autismo sono
- Persecuzione dei segni della presenza dell’Altro.
- Di fronte a questa persecuzione, in ritorno, abbiamo i tentativi di annullare l’Altro: attraverso il mutismo, il neolinguaggio, il rifiuto dello sguardo e del tatto; e annullare l’altro minuscolo: i suoi desideri (è l’ignoranza superba dell’autistico). Faccio diagnosi, ad esempio, per il fatto che ci camminano sistematicamente sui piedi.
Alla base vi è l’impossibilità o l’impedimento nell’entrare nell’alienazione significante, e quindi nella separazione rispetto all’Altro.
Il bambino autistico non è in grado di dire “io” (je), ciò vuol dire che non è in grado di iscriversi nel linguaggio né come soggetto dell’enunciazione, né come funzione logico-sintattica dell’enunciato. È per questo che seguendo l’insegnamento di Lacan diciamo che l’autistico è fuori discorso, ma non fuori linguaggio. Il bambino autistico non sdoppia linguaggio e godimento; per lui è lampante come la parola serva a godere. È al di qua di qualsiasi legame sociale.
La sfida, dunque, è quella di lavorare facendo a meno del significante verbale. Restano al bambino autistico due modi di avere a che fare con il linguaggio: o utilizzare una lingua verbosa, separata dall’Altro, legata alla musica e agli affetti, o ricorrere ad una lingua funzionale, depurata il più possibile dall’enunciazione, adatta a comunicare, ma vuota di affetti.
Per il bambino autistico l’effetto di non accesso all’Altro implica l’impossibilità di riconoscere come propria l’immagine riflessa nello specchio che tanto lo attrae, come ho notato nella mia esperienza; è in tal senso che si può capire come Colette Soler parli dell’autismo come di una “malattia della libido”[1]. La questione è quella di sapere come questo soggetto definito come puro effetto, parlato dall’Altro, possa virare verso l’agente e divenire qualcuno che parla, che desidera; detto altrimenti, qualcuno che si anima di libido. Di fronte allo specchio si nota una vista senza sguardo, una percezione senza soggetto, un arrestarsi al bordo. Ecco perché il bambino autistico non abita la sua parola, ma è egli stesso, con tutto il suo corpo e i suoi gesti e i vocalizzi, una parola. Qui il godimento dell’Altro ha un effetto di sconfinamento, lo sconfinamento della domanda sul corpo. Ed è facendo argine a questo godimento dell’Altro che nella terapia è possibile incamminarsi verso il reperimento del soggetto posto-sotto i significanti che lo rappresentano.
Se si punta al soggetto non ci sarà alcun protocollo a cui attenersi. E questa è per me la differenza più importante tra una psicoanalisi che attualizza il suo discorso calibrandolo sull’autismo e le altre terapie, le quali offrono un sapere tecnico bell’e pronto.
Dinanzi a tale questione l’esperienza clinica coincide con il desiderio dell’analista e con il suo saperci fare, cominciando ogni volta, e a ogni nuovo incontro, sempre daccapo, assumendo su di sé, prendendosene cura, che tutto il lavoro fatto il giorno prima è della stessa sostanza di un’orma sulla spiaggia. E questo è il fondamento etico cui ho accennato all’inizio. Nella cura non si tratta soltanto di sbarrare la strada ad un Altro che è avvertito come mortifero, e che devasta senza freni il corpo dell’autistico. Si tratta di incamminarsi verso un semblant che spetta all’analista di incarnare, esercitando una sola funzione: quella dell’esser-ci, fosse anche solo come orma sulla spiaggia.
[1] Soler C., (2002), “Autismo et paranoïa” in L’inconscient à ciel ouvert de la psychose. Toulouse, PUM.
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