Il virus, l’angoscia e l’insostenibile vuoto
- Posted by Eva Orlando
- On 27 aprile 2020
- Angoscia, panico, Paura, Virus
In questi giorni la comparsa e diffusione di un virus ha messo in ginocchio l’umanità. Un’entità biologica con un diametro tra i 20 e 300 nanometri, in poche settimane ha avuto la potenza di sconvolgere le nostre vite. La nostra vita è cambiata, molti pensano che non sarà più la stessa. Siamo di fronte ad un’epidemia epocale, fenomeno non così frequente dagli albori della vita. All’improvviso ci scopriamo fragili, impauriti, senza certezza. Ci fa di compagnia la paura e lo sconforto, a volte la disperazione. La paura del contagio per noi e i nostri cari, il sentirci così esposti alla malattia e alla morte, fa vacillare la nostra identità. Siamo tutti esposti alla perdita in un tempo che è invece dilatato nella sua percezione. Molti hanno perso il lavoro, un numero inafferrabile ha pagato il prezzo più alto, tutti abbiamo perso la nostra libertà. In questa situazione è davvero difficile contrastare il demone Pan da cui deriva il termine panico. Se Pan cambiava di volta in volta aspetto disseminando la paura, oggi il nostro nemico veste i panni dell’invisibile. A scatenare il panico è un virus tanto invisibile quanto più potente. Un’invisibile che ci ha confinato nelle nostre case e che ci ha ritirato dai legami sociali, unica vera linfa dell’umano. Un’invisibile che ci impedisce di stringerci e di abbracciarci e che di colpo ci sottomette. Questo virus è diventato una metafora generalizzata della nostra epoca. Diffondendosi a macchia d’olio è il risultato della globalizzazione, ma ne è anche il limite. La velocità con la quale si è propagato il virus è davvero sconcertate ed è per questo che impone un arresto. Basta a scambi, stop a voli, alt a qualsiasi forma di spostamento. Il virus declina la nostra esistenza e quella degli altri nel modo del destino, un destino indecifrabile, a volte insopportabile, ma ineluttabile. Per la scienza il virus è un “organismo ai margine della vita”, non è ancora vita, nella sua capacità parassitaria, eppure attenta alle nostre vite e, di fatto, ha confinato l’intera umanità ai margini della vita, confinandoci nelle nostre case. Questo confinamento non ha il sapore della pausa o del rallentamento dei nostri ritmi frenetici e stressanti. Questo confinamento porta l’eco del numero dei contagiati e delle vittime. Questo confinamento è accompagnato dalla desertificazione delle strade delle nostre città. E da qui un silenzio assordante, un silenzio che tocca ognuno di noi e che dalla paura del contagio, della morte, del domani ci conduce all’angoscia.
Per Lacan: «L’angoscia è, fra tutti, il segnale che non inganna. Del reale, di un modo irriducibile in cui il reale si presenta nell’esperienza – ecco ciò di cui l’angoscia è il segnale[1]». Nell’angoscia si tratta di avere a che fare con un reale che si tenta di circoscrivere. È così che si prova angoscia quando nessuna porta del linguaggio si apre con la chiave della parola. L’angoscia è qualcosa che si sente, e che si caratterizza per il suo “stringere”. Nel suo essere soffocante, l’angoscia ci paralizza, ci pietrifica, e soprattutto nell’angoscia non c’è più oggi o domani. A differenza della paura che rimanda ad un oggetto ben definito e allo spavento che sottolinea l’effetto di sorpresa in un soggetto non preparato all’irruzione di un evento particolare, l’angoscia, l’Angst definirebbe uno stato di attesa relativo ad un pericolo non distintamente identificato. L’operazione di Lacan è quella di incorniciare l’angoscia e delimitare la natura del suo oggetto. Lacan ha fatto dell’angoscia un affetto non come gli altri, un affetto d’eccezione, il solo che non inganna. Non si tratta di un turbamento, né di un’emozione, né di un impedimento. Ma non è neanche un sentimento che mente anzi esso è un pre-sentimento; qualcosa che precede la nascita del sentimento. Ciò che angoscia è il vuoto della significazione, così come il vuoto dell’Altro. Accanto a ciò è necessario che si verifichi un’ulteriore condizione e cioè che il soggetto angosciato si senta interessato nel suo essere. La vera e propria sostanza dell’angoscia è il «ciò che non inganna[2]», l’angoscia non è il dubbio, ma la causa del dubbio: è una certezza, poiché non esiste un affetto che sopportiamo peggio dell’angoscia. È in questo che designa Das Ding che non inganna che fa certezza non nell’ordine del sapere, ma del reale, perché ciò che è in gioco – seguendo la lettura di Lacan – è la vera presa sul reale è la presa simbolica che ci dà angoscia.
Il virus di per sé non vive, ha bisogno del vivente per farlo. Il virus finge e mima la vita e va ad occupare il posto dell’oggetto dell’angoscia. Infatti quando il virus non è più pericoloso non diciamo che è morto, ma che è inattivo. L’immagine che ricorderemo di queste lunghe settimane è quella del Papa solo nel mezzo del vuoto di una desolante e struggente piazza S.Pietro. Una solitudine troppo umana che sconfina in una tragica bellezza. Il Papa che si mostra umano, mancante, è il simbolo un vuoto che è di ciascuno di noi. Eppure di fronte a questo vuoto: “nessuno si salva da solo”.
Questo è l’unico punto che finora possiamo afferrare di tutta questa storia.
[1] Lacan J., (1962-1963), Il Seminario Libro X, L’Angoscia, Einaudi, Torino, 2007, pag.174.
[2] Lacan J., (1962-1963), ibidem, pag. 83.
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